sabato 5 maggio 2018

L'educazione nell'Alto medioevo

Ancora oggi alcuni comportamenti vengono lodati per il fatto di essere "cavallereschi", ossia improntati alla lealtà e al rispetto e alla difesa dei deboli. Per esempio, è considerato cavalleresco aiutare una donna a portare i sacchetti della spesa o non fare gol quando il portiere avversario si è infortunato.






Le donne di oggi non sono principesse in pericolo, i maschi non sono di sicuro cavalieri. Però la parola cavalleria, con tutto il suo strascico di armature, cavalli, coraggio, lealtà, trecce lanciate giù da altissime torri, viaggi infiniti e combattimenti, ha ancora il suo fascino.
Il New York Times ha aperto il dibattito, dal titolo La cavalleria è morta. Lunga vita alla cavalleria, per capire quale possa essere la sua sorte negli anni Duemila: sepolta sotto la lapide delle romanticherie del passato, ancora viva oppure in evoluzione, per adattarsi a una società molto più «emancipata e cinica»? Senza dimenticare che i cavalieri andavano alle crociate e si ammazzavano per spartirsi le terre e ottenere privilegi dai loro signori, certo pare anacronistico riproporre una visione del rapporto uomo-donna in cui lui debba proteggere lei, fragile e indifesa. Però scrittori e blogger e studiosi che hanno dibattuto di cavalleria per il quotidiano americano sono quasi tutti d'accordo: morta non è morta, ma un po' da rivedere di sicuro. E sì, la giovane attrice Miley Cyrus ha detto che «la cavalleria è morta» e lei si deprime a guardare certi film romantici, visto che poi la realtà va in tutt'altra maniera. Un sondaggio del 2010 però racconta anche che l'ottanta per cento degli americani pensa che le donne siano trattate meno cavallerescamente che in passato, mentre uno studio su diecimila persone in tutto il mondo ha scoperto che la caratteristica principale che i giovani (maschi e femmine) cercano in un partner è la gentilezza. E al cuore della cavalleria, insieme al coraggio, alle capacità in battaglia, ai valori cristiani, c'è proprio la «cortesia» medievale.






Che nulla vieta di riadattare al Ventunesimo secolo, con le dovute differenze. Per esempio, che cavalieri possano essere sia gli uomini, sia le donne, in questi termini.




Keith Bernard, scrittore e musicista, scrive per esempio che la cavalleria è «un contributo allo sciovinismo», perché quegli uomini che sono così galanti e solerti nel cedere il posto in metropolitana alle signore, sono «gli stessi che cento anni fa non avrebbero tollerato una donna manager in ufficio». Può essere vero, ma non sempre. Può essere anche vero, invece, come sostiene la scrittrice Emily Esfahani Smith, che «è meglio aprire la porta a una donna che sbattergliela in faccia», e che quindi la cavalleria, alla fine, sia «una virtù a cui tutti dovremmo aspirare». Nel senso di compassione ed empatia per il prossimo, gentilezza rispettosa. Magari è una forma di cortesia troppo spesso dimenticata: le donne saranno cambiate, ma non è un alibi per non versare l'acqua nel bicchiere, o regalare un mazzo di fiori, o cedere il passo, o corteggiare. Ci sono buone maniere, anche per e verso donne non da salvare.
Se esistono dei rituali, dice Brett McKay, non per questo sono da demonizzare: anzi, ci ricordano le nostre differenze, che poi ci rendono una coppia. C'è chi commenta che oramai «cavalleresco» sia sinonimo di «molto civile»: perché negli anni Duemila è tutto così rivoluzionato, emancipato, che «un gesto di civiltà sembra qualcosa di straordinario». Tanto da pensare che siamo ridotti così male, da dover ripescare i vecchi cavalieri (anche senza investitura).


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blog.ilgiornale.it/barbieri

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